L’origine dei Morpurgo
Israel Isserlein, nato alla fine del XIV secolo a Marbourg, in Stiria, potrebbe essere riconosciuto come il capostipite dei Morpurgo. Noto per alcune pubblicazioni sull’esegesi biblica, egli aggiunse al suo nome quello di ex Marbourg quando si trasferì a Vienna nel XV secolo. La città stiriana fu un centro assai importante per gli ebrei askenaziti, ma da lì vennero cacciati alla fine del Quattrocento.

Tra i discendenti di Israel Isserlein è ricordato Isacco di Trieste – probabilmente titolare di banchi di prestito – figlio di Aronne di Marbourg, il quale assieme ad altri componenti della famiglia acquisì riconoscimenti dall’imperatore tedesco Massimiliano I – già manifestatosi in varie occasioni favorevole agli israeliti – molto probabilmente perché i Marbourg erano in grado di fornire grossi approvvigionamenti in quel periodo di guerre.
I Marburg – così si perpetuò il loro nome – si divisero in più rami, stabilendosi a Gorizia e a Gradisca. Si ha notizia che, nel 1624, Mosè figlio di Aron di Gradisca e Jacob figlio di Simon Marpurger di Tapogliano furono eletti Hofjuden (ebrei di corte), titolo molto ambito ed elevato concesso solo raramente dall’imperatore d’Austria Ferdinando II.
I Morpurgo a Trieste

Anche a Trieste approdarono molti Morpurgo che si distinsero per le capacità imprenditoriali e diplomatiche, mentre la loro munificenza è testimoniata da lasciti e donazioni:il Civico Museo Morpurgo rimane una tangibile e prestigiosa dimostrazione di questa generosità.
Nel 1870 le sorelle Emma e Fanny Mondolfo, coniugate con i fratelli Morpurgo acquistarono lo stabile intavolato con il numero 839 sull’angolo tra la contrada San Giovanni (ora via Imbriani 5) e la contrada Nuova (ora via Mazzini 42) e quello adiacente segnato con il numero tavolare 840 (prospettante sulla Contrada Nuova). Demoliti questi antichi edifici, nel 1875 l’architetto Giovanni Berlam progettò un palazzo di eleganti e sobrie forme neorinascimentali.

Giacomo e Fanny Morpurgo con i figli Mario e Matilde, nel 1878, andarono ad occupare l’appartamento che si estendeva sull’intero secondo piano, mentre Carlo Marco ed Emma Morpurgo scelsero quello corrispondente al primo piano. Il terzo piano fu suddiviso in due appartamenti da affittarsi, come pure gli ampi locali del piano terra. Alla morte di Emma la casa passò interamente alla sorella, la quale nel 1938 fece atto di donazione in favore dei figli. Ambedue alla loro morte lasciarono le rispettive proprietà al Comune di Trieste.
Mario Morpurgo (Trieste 1867 – Pordenone 1943) nel suo testamento, stilato nel 1941, destinò quale erede di tutta la sua sostanza il Comune di Trieste, oltre alle collezioni d’arte, tutto il mobilio e l’arredamento. La rendita della sostanza, che, tra l’azienda agricola di Sant’Andrea di Pasiano, il palazzo Morpurgo, depositi bancari, titoli e obbligazioni, ammontava a 279 milioni, fu destinata a creare un fondo intangibile con il nome Mario Morpurgo de Nilma: la fondazione fu costituita in persona giuridica nel 1947 come Ente Morale con sede in Trieste (via Imbriani 5) e presta tuttora la sua nobile opera. Scopo della fondazione è quello di soccorrere persone indigenti, con preferenza per quelle decadute, nate e residenti a Trieste.
L’appartamento del secondo piano con quasi intatto il suo mobilio divenne Civico Museo Morpurgo e quello al primo fu nel 1950 adibito a Museo del Risorgimento e a quello di Storia Patria. Nel 1952 divenne sede della Collezione Stavropulos e dal 1991 sede provvisoria del Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”.

Durante la seconda guerra alcune collezioni furono razziate: parte dei quadri e dell’argenteria e tutti i tappeti, che ornavano le stanze e il corridoio. Si riuscì però a salvare moltissimo: oltre al mobilio, una preziosa raccolta di maioliche settecentesche, vasi di Savona, maioliche di Faenza e di Castelli d’Abruzzo (i cui pezzi più preziosi sono esposti alla Mostra della ceramica al Civico Museo Sartorio), vasellame giapponese, vetri boemi e completi servizi da tavola in porcellana francese Pillivuit con monogramma. Inoltre si conservano le xilografie e le incisioni di Jacques Callot, Gérard Edelink, Pierre Drevet, Giandomenico Tiepolo, Francesco Bartolozzi, Jean Balvay, Max Klinger e Félix Vallotton e – testimonianza del fascino che suscitava negli occidentali l’Estremo Oriente – un cospicuo nucleo di xilografie giapponesi che vanno dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XIX secolo, insieme alla galleria di sessanta quadri e disegni che ornano ancor oggi le stanze e i corridoi.

Tra questi dipinti vanno ricordati quelli più antichi eseguiti da artisti della cerchia di Luca Giordano, quelli di artisti di scuola italiana tra Sette e Ottocento, quali Giuseppe Borsato, Natale Schiavoni, Lorenzo Butti, Antonio Zona, Antonio Zuccaro, Domenico Morelli, Girolamo Induno, Tito Agujari, Federico Nerly, Luigi Nono, Giovanni Lessi, Emma Ciardi, Amalia Glanzmann; quelli di artisti dell’Ottocento di scuola francese, quali Charles Daubigny, Francois Bonheur e Paul Baudry; infine quelli appartenenti alla scuola austriaca e tedesca, pure ottocenteschi: Joseph Werner, Johann Ranftl e Bernardo Fiedler.